#lopsicologoracconta
Francesca e Marco (i nomi sono di fantasia) arrivano da noi qualche settimana fa, molto allarmati perché Paolo, 8 anni, improvvisamente non vuole più andare al Centro Estivo.
“Non capiamo che cosa stia succedendo… aspettava da settimane di poter iniziare, era super entusiasta, come tutti gli altri anni. I primi giorni sono andati alla grande, poi, dopo una decina di giorni ha iniziato… prima un mal di pancia, poi aveva sonno, poi era stanco, poi si annoiava… fino a dire di non voler più andare...”
La coppia è molto preoccupata, teme possa essere accaduto qualcosa, ma alle loro domande sul perché non volesse più andare, Paolo ha sempre dato le solite risposte… noia, stanchezza, ecc.
Sicuri che, invece, qualcosa di più importante ci fosse, Francesca e Paolo chiedono aiuto al nostro Centro, nella speranza che possiamo aiutarli a capire ed a risolvere il problema, qualunque esso sia.
“Ci hanno parlato benissimo di voi, ci hanno detto che siate bravissime e che i bambini vengono sempre volentieri pur trattandosi di una terapia… vi prego, aiutateci!”
Spesso, i genitori ci chiedono aiuto per “parlare” con i loro figli.
Noi, tuttavia, crediamo fortemente che i genitori abbiano in sé tutte le risorse per sostenere la crescita dei loro bambini per cui, prima di sostituirci a loro, cerchiamo di capire, con loro, cosa si è bloccato e come aiutarli ad essere loro stessi protagonisti dell’aiuto di cui i loro bambini/ragazzi possono aver bisogno.
Così incontriamo per un paio di volte la coppia e cerchiamo di conoscere la loro storia familiare, con l’obiettivo di pensare ad un intervento che sia “cucito” sulla loro famiglia.
Francesca ci racconta di capire bene le difficoltà di Paolo ad aprirsi, perché anche lei è stata una bambina molto chiusa. I suoi genitori avevano un’attività commerciale che li teneva lontani da casa per tutto il giorno e, spesso, anche nei week end: “…i miei uscivano quando io ancora dormivo e rientravano così tardi che spesso mi trovavano già nel mondo dei sogni. Venivano da un paesino del nord e qui non avevano nessuno che potesse aiutarli, quindi hanno dovuto darsi tanto da fare per comprare una casa e mantenere la famiglia. Io, nel frattempo, crescevo con una vecchia zia acquisita, molto severa e taciturna. Parlavamo solo di regole, doveri e compiti. Ho, quindi, imparato a cavarmela da sola, non avevo nessuno con cui condividere quello che mi succedeva e ai miei genitori cercavo di dare meno problemi possibile perché sapevo quanto era difficile e faticoso per loro…”
Marco ha una storia diversa, ma per certi versi molto simile. Secondo di quattro fratelli, vive in una famiglia molto numerosa, con i nonni paterni in casa. E quando si è in tanti, ci racconta, è difficile avere uno spazio in cui sentirsi “unici”.
Nel corso dei loro racconti, ci viene il pensiero, che condividiamo con Francesca e Marco, che siano stati bambini poco visti, poco ascoltati. Entrambi, di fronte a questo rispecchiamento si commuovono, ripensando al vissuto di solitudine che hanno sperimentato. Anche per questo, ci dicono, hanno impostato la loro unione sulla vicinanza, sull’impegno a trovare sempre il tempo per fare cose insieme, tutti e quattro (c’è anche un figlio arrivato da poco, Giordano, di 9 mesi).
Quello che emerge, tuttavia, è che sono poco abituati a condividere le loro emozioni… fanno tante cose insieme, si vogliono bene, si amano, ma si “dimenticano” di chiedersi, ad esempio, “come stai?”. Il loro legame è forte e traspare in ogni minuto che trascorriamo con loro. Semplicemente, non sono abituati. Nessuno lo ha fatto con loro e loro non hanno imparato a farlo.
Proponiamo, quindi, alla coppia, di fare un “gioco in famiglia”. Del resto, loro in questo sono già molto competenti e, infatti, accolgono la proposta con molto entusiasmo!
Però… il gioco questa volta ha a che fare proprio con la condivisione delle emozioni, con il costruire, insieme, un ponte tra le emozioni silenziose di ciascuno.
Prima di raccontarvi il gioco, vogliamo ringraziare Francesca e Marco per aver voluto che condividessimo la loro esperienza con tutti voi.
“…è stata una bellissima esperienza, che ci ha aiutato a risolvere il problema di Paolo ma, soprattutto, ci ha arricchiti come famiglia, facendoci sentire ancora più uniti. E’ stato bellissimo anche per come il gioco ha lavorato con noi come coppia. Stiamo imparando a raccontarci il nostro mondo, quello silenzioso che è dentro di noi e che non vede nessuno. E questo è davvero prezioso…”
#ilgioco:
"Costruiamo un Ponte per le Emozioni"
a) Recuperate un sacchetto non trasparente ed inseritevi circa 15 pezzettini di lego divisi in n° 4 colori: rosso, giallo, verde e nero (ma vanno benissimo anche colori diversi).
b) Ogni componente della famiglia scriverà la sua "legenda" assegnando ad ogni colore l'emozione a cui lo fa pensare, tra le quattro emozioni di base: gioia, tristezza, paura e rabbia
c) Ogni sera, prima o dopo la cena, quando tutta la famiglia è a tavola, a turno, ognuno pesca un mattoncino, senza guardare. In base al colore uscita, guarderà la sua legenda e comunicherà l'emozione estratta. Poi, racconterà agli altri una situazione della giornata appena trascorsa (a casa, al lavoro, a scuola, con gli amici, ecc.) in cui ha provato quella emozione.
Un giro ciascuno, tutte le sere! Cinque minuti, per un'abitudine che diventerà preziosa e permetterà a tutta la famiglia di imparare a parlare delle proprie emozioni, condividere esperienze, conoscersi reciprocamente.
"L'esperienza di Francesca , Marco e Paolo..."
Paolo, al Centro Estivo, era stato preso in giro da un paio di bambini perché non sapeva giocare al gioco di carte Uno e per questo si era autoescluso dal gruppo di bambini. Dopo qualche giorno in cui la famiglia faceva il gioco proposto "Costruire un Pone per le Emozioni", all’uscita della “Tristezza”, Paolo ha raccontato tutto alla sua mamma e al suo papà. Loro hanno saputo ben accogliere la sua emozione, sostenendolo e mostrandogli comprensione. Dopodiché, gli hanno insegnato a giocare a Uno e… neanche a dirlo, Paolo ha ripreso a frequentare il Centro Estivo con più allegria di prima!!!
#lopsicologosuggerisce
Abituare i nostri figli a condividere i propri vissuti li protegge dal trovarsi in situazioni difficili da gestire. E, ancor di più, abituarsi, tutti, a condividere un momento della propria giornata, in un mondo così frenetico, ci consente di non perderci, di non estraniarci, di non isolarci pur vivendo tutti insieme.
Il nostro invito, dunque, è quello di provare, già da domani, a crearvi questo spazio in famiglia. Con bambini piccoli, così come con adolescenti. E, perché no, anche solo con il/la nostro/a compagno/o!
#perapprofondire
"Mamma e papà sentite ciò che sento"
Essere genitori "Allenatori emotivi".
"Prendere sul serio le emozioni dei bambini richiede empatia,
notevoli capacità di ascolto e il desiderio di vedere
le cose dalla loro prospettiva"
John Gottmann "Intelligenza emotiva per un figlio"
Una delle sfide più grandi per i genitori è quella di sintonizzarsi con il proprio figlio, ovvero "sentire ciò che sente", rispecchiare e valorizzare ogni sua emozione.
Come genitori siamo un modello anche quando si parla di emozioni, perchè i nostri figli imparano da noi cosa significa essere tristi, felici, spaventati, arrabbiati, così come imparano da noi il modo in cui esprimerle.
Lo psicologo Gottman, attraverso i suoi studi, ha evidenziato che i genitori possono essere degli "allenatori emotivi". Il genitore "allenatore" è quello che riesce a mettersi nei panni del figlio, che nelle emozioni, anche negative, vede un’occasione di crescita, e che di conseguenza riesce a gestire i momenti di crisi con maggior pazienza, accettando e ascoltando tutti i sentimenti del figlio senza minimizzare, sottovalutare o deridere queste emozioni.
Il genitore "allenatore", che sa sintonizzarsi con il proprio figlio, riconosce, accetta l'emozione ma contemporaneamente pone dei limiti rispetto ai comportamenti inaccettabili del figlio, aiutandolo a individuare una modalità adeguata per esprimere le emozioni che prova.
Per poter diventare un "allenatore emotivo", l'autore consiglia di seguire questi cinque passaggi:
1. Riconoscere le emozioni del figlio: per fare questo il genitore deve avere una autoconsapevolezza emotiva, cioè deve sapere riconscere egli stesso di provare un’emozione e, soprattutto, di quale emozione si tratta; deve, in altri termini, sapere che quello che sta provando è rabbia, tristezza, delusione, ecc. Senza questa autoconsapevolezza, non potrà essere in grado di essere consapevole di ciò che sta provando il figlio in quel momento.
2. Riconoscere nell’emozione del figlio un’opportunità di intimità e insegnamento; il genitore allenatore, una volta colta l’emozione del figlio – di paura, di rabbia, ecc. – , coglie quel momento come fondamentale per applicare le sue doti di genitore.
3. Ascoltare con empatia il figlio e convalidare i sentimenti del bambino: il genitore, avvicinandosi al figlio, deve aiutarlo a dare un nome alla sua emozione; usando espressioni del tipo ‘vedo che c’è qualcosa che ti preoccupa… sei triste? O sei arrabbiato…?’.
4. Aiutare il bambino ad esprimere le emozioni che prova. Una volta che il figlio risponde ad esempio di essere arrabbiato, il genitore allenatore dovrebbe essere bravo a restituirgli questa emozione cercando di portare il figlio a spiegare i motivi del suo sentire: ‘Puoi dirmi perché sei arrabbiato? Forse perché ecc…’, per poi dirgli: ‘ti capisco, anche io al tuo posto sarei arrabbiato’.
5. Porre dei limiti, mentre si aiuta il bambino a risolvere il problema: questa è forse la fase più difficile perché il genitore allenatore deve essere in grado di far capire al bambino che tutti i suoi sentimenti, le sue emozioni e i suoi desideri sono accettati, ma non tutti i comportamenti che scaturiscono da quell'emozione.
Gottman J., Intelligenza emotiva per un figlio, BUR